L’africa di Natalie Foffi

Day 3 – 6 settembre 2017

Il mercato.

Sveglia alle ore 7:00.

Colazione con tè, marmellata all’arancia e qualche biscotto e si parte per il “famoso” “Mercato di Zaccheo”, chiamato così da Gianni e Patrizia per la sua essenza caratteristica: essere rimasto agli anni di Cristo. 

Non potevo chiedere di meglio come primo giorno.

In quel mercato vidii di tutto. Tutto.

Da una scimmia a quantità industriali di chiodi, dal riso ai televisori, dai polli ai tessuti, dalle scarpe alle gomme, il tutto rigorosamente usato. 

Immersa in una confusione di suoni, odori e colori misi addirittura paura ad un bimbo selvaggio che camminando si girò verso di me e fece un salto. Io povera estranea in mezzo a quel mercato locale, attrezzata di macchina fotografica e telecamera forse potevo sembrare un militare bianco.

Usciti dal mercato, dopo aver comprato tutto il materiale per proseguire i lavori, ci dirigemmo verso il nostro villaggio a Matewere.

Arrivata al villaggio inizio a sbirciare nelle aule della scuola. Entro nella seconda. Bimbi sparsi ovunque, tra le mani tenevano libri stropicciati e quaderni dai fogli marroni, seguivano selvaggiamente la lezione della maestra e lo stesso nelle altre aule fino ad arrivare nella classe prima. Nella prima la giungla totale. Piccoli bimbi selvaggi erano seduti sul cemento dell’aula ancora da finire. Stavano imparando a pronunciare la lettera “V” ma la maestra aveva meno voglia di loro e ogni 3 secondi usciva a parlare con le sue colleghe e nel frattempo io distraevo i bimbi selvaggi con smorfie e foto. Diciamo che la metà del tempo per loro è ricreazione e l’altra metà “lezione”.

Divertita dalle smorfie ricambiate dei bimbi selvaggi mi dirigo verso il giardiniere Manuel che stava provando a piantare buganvillea e aloe.

Una volta accertati tutti i lavori si ritorna a casa e per pranzo ci aspettava il piatto tipico africano Masa e verdure.

La Masa è un alimento a base di farina di mais e acqua simile alla nostra polenta ma di colore bianco. L’aspetto non è invitate ma il sapore ottimo. Don Eusebio mi riempì due volte il piatto per mostrare la fierezza di quel tipico piatto africano.

Neanche il tempo di finire di mangiare che si riparte a comprare il legname.

Come mi è stato spiegato, si cerca di trovare il prodotto più conveniente dato che il costo della manodopera è molto basso ma il costo del materiale è praticamente come in Italia.

La costruzione del progetto di “Sorrisi nel Mondo” porta lavoro a centinaia di persone, persone che il lavoro non l’hanno mai visto. Le case sono pochissime, intorno a noi ci sono solo capanne fatte di paglia e mattoni di terra, i pochi palazzi che si intravedono sono opera dei portoghesi. La manodopera costa poco anche perché ne esiste ben poca. Il progetto dà la possibilità a questa povera gente non solo di guadagnare qualche soldo ma di imparare un mestiere e ciò vale più di qualsiasi moneta.

Si cerca di dare lavoro a tutti, dalle donne che spaccano le pietre per fare le basi delle fondamenta, dal vecchietto che si improvvisa carpentiere, dalla cieca che porta l’acqua alle piante guidata dai suoi figli, perché lavorare dà dignità all’uomo e qui, più che in qualsiasi altra parte del mondo, posso dire che “il lavoro nobilita l’uomo”.

E’ l’ora del medico.

Una fila di persone dai mille tessuti colorati sostava fuori dall’ambulatorio ad aspettare il nostro arrivo. L’ambulatorio è pronto dall’anno scorso ma la lentezza burocratica che caratterizza questo mondo fa si che siamo ancora in attesa del personale operativo. Così l’unica persona che opera dentro l’ambulatorio è Damiano.

Inizio a sistemare le medicine mentre a turno entrano donne, bambini, anziani. 

C’è chi sta veramente male e poi chi vuole solo un comprimido.

In genere i bambini che stanno veramente male non fiatano mentre per chi si dispera intervengo io con le caramelle. Caramelle per tutti.

Durante una visita entra una coppia di signori per donare una sacca di fagioli a Patrizia. Abbiamo provato a restituirlo ma niente, anzi peggioravamo la situazione in quanto segno di offesa. Questi gesti di generosità sono benzina per la nostra voglia di aiutare.

Damiano visita senza sosta oltre il calar del sole aiutandosi con la torcia del telefono, l’elettricità, nonostante le varie promesse del municipio, non è ancora arrivata. 

Cena pollo e minestra.

Il gas è finito e si riscalda tutto con il fuoco. 

Africa Boa Noite

Day 8 – 11 settembre 2017
Avevo solo 7 anni quando mentre guardavo la “Melevisione” l’orrore mi apparse in TV senza chiedere il permesso. Io, che così piccola a malapena sapevo cosa fosse la vita, fui costretta a guardare in TV per la prima volta la morte.
Tanti piccoli coriandolini neri cadevano da due torri immense, sembrava quasi un gioco ma le facce dei grandi dicevano il contrario.
Oggi, a molti anni di distanza, la morte ribussò alla mia porta.
Arrivati al villaggio ci dissero che uno degli operai è assente perché è venuta a mancare la sua nipotina di neanche 10 anni. La bimba era una nostra studentessa.
Causa del decesso: malaria.
Ci chiesero di portare i suoi compagni di classe a salutare la povera bimba spenta. Così caricammo alunni e maestre sul furgoncino bianco e ci dirigemmo verso il Villaggio della bimba.
Durante il viaggio i bimbi mi sorridevano, guardavano meravigliati i miei aggeggi elettronici e le maestre mi facevano domande sull’Italia.
Arrivati al Villaggio scesero e si misero in fila, ordinati e composti si diressero verso la capanna da cui provenivano i pianti.
Se andavano dei piccoli bimbi come loro perché non potevo andare io?
Entrai nella capanna, era tutto buio, sentivo solo pianti e lamenti, tolsi gli occhiali e tra quel miscuglio di stoffe colorate vidi quel piccolo volto spento. Corsi subito fuori e trattenni il pianto. Piano, piano uscirono i suoi compagni di classe, impassibili. Scrutai i loro volti ad uno ad uno alla ricerca di una lacrima, ma niente.
Quei bimbi erano adulti, non sapevano scrivere il loro nome ma conoscevano la morte meglio di qualsiasi bimbo europeo che quell’11 settembre stava guardando la “Melevisione”. La vera bimba ero io che nonostante i miei 23 anni non riuscivo a trattenere le lacrime e ad accettare quella stupida morte.
Visto che i più scossi da questa situazione sembravamo io e Patrizia ci facemmo coraggio e decidemmo di fare la lezione programmata su chi eravamo e da dove venivamo alla seconda classe. Alla fine chiesi a tutti i bimbi di scrivere il loro nome sul foglio. Tutti mi guardavano con quei musini interrogativi e io che con il mio portoghese dall’accento italiano incitavo: “escrever, scrivete!!”. Alla fine tirarono fuori dalla “cartella”, una busta di plastica, il libro di testo su cui le maestre avevano scritto i loro nomi così da poterlo ricopiare. I bimbi erano della seconda ma il più grande aveva 15 anni e il più piccolo 7. Nessuno parlava il portoghese: la loro lingua nazionale.
Nel pomeriggio decidemmo di andare in spedizione in un villaggio vicino alla ricerca delle famiglie più povere per donare beni alimentari.
Arrivati a Matewere orde di bimbi selvaggi con le madri si erano accalcati davanti l’ambulatorio. La voce che durante le visite mediche distribuivamo doni si era sparsa per tutto il villaggio e oltre, così ogni piccola malattia era un ottima scusa per venirci a trovare. Annunciammo che per oggi non ci sarebbero state visite e ci incamminammo verso il furgoncino bianco.
Lì ad aspettarmi un piccolo coniglietto nero con il musino bianco, un dono di Manuel, il giardiniere. Fui felice come una bimba per quel piccolo batuffolo. I bimbi selvaggi volevano che io rimanessi lí per un giro giro tondo o una bella lavaderina ma io a malincuore volevo proseguire l’altra missione.
Con il coniglietto alla mano, che chiamai LUA (LUNA, in Chichewa, lingua dei più poveri o meglio della maggior parte della popolazione), mi incamminai insieme a Damiano e Patrizia nel villaggio vicino “Gnagnale”. Ci fermammo in un “cortile”, dove due bimbe stavano giocando, ci avvicinammo e tra la “capulana” le bimbe avevano delle bambole fatte di terra, bellissime. Mi si spezzo il cuore vedendo quelle opere d’arte, pensai al mio scatolone di Barbie ultimo modello lasciato ad ammuffire in soffitta. Dal niente quelle due bimbe ricavarono il tutto. Iniziarono a ridere a crepapelle quando noi scovammo le bambole, divertite dal loro stesso gioco. Proseguimmo il cammino, il villaggio era pressoché vuoto, stavano tutti al funerale della bimba, qui i funerali durano 3 gironi circa. Più andavamo avanti e più l’orda di bimbi aumentava, avevamo di nuovo costruito un esercito di bimbi selvaggi che mangiava topi ma aveva paura della piccola LUA.
Inizio con fatica a capire perché questo paese ha l’acqua e non si lava, ha la terra da coltivare, gli animali da allevare e si muore di fame, come dice Gianni: “Questo è un campo un pò complesso”. L’associazione non nasce per dettare leggi di vita ma per mostrare come un mondo migliore può esistere, nasce per aiutare a camminare, non per fare da carrozzina.
ZUA (sole in Chichewa) se ne andò e così anche noi con amore/odio per “un paese un po’ complesso”.